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venerdì 18 ottobre 2013

Justin Timberlake, "The 20/20 Experience, part 2 of 2" - Recensione

JT -- The 20/20 Experience part 2 of 2 (Deluxe)

voto: **** 1/2

A pochi mesi dall'uscita della prima parte, ecco arrivare la part 2 of 2.
Ancora non mi ero stancata pienamente del fratello maggiore di questo LP ma ero esageratamente curiosa di sapere cosa avrebbe proposto JT in questo secondo tempo.
Tutti a chiedersi cosa ne sarebbe venuto fuori: una serie di scarti dalla prima parte? Una manciata di canzoni abbozzate e dalla scarsa qualità tanto per cavalcare l'onda del successo scaturita dal primo?
Ciò che invece ci ritroviamo per le mani (noi che ancora abbiamo la bella abitudine di comprare i CD originali), è un'onorevole seconda tranche che prosegue ideologicamente la prima - e il ponte perfetto tra le due è il singolone "Take Back The Night" - e che non tradisce la qualità e la cura che erano state caratteristica principale della part 1.
Alla produzione troviamo sempre Timbo e la stessa voglia di sbizzarrirsi; quello lievemente cambiato è proprio Timberlake che qui s' allontana un po' dall'immagine di crooner in completo suit&tie, per proporre il suo lato più notturno, quello con più voglia di ballare e meno ingessato... quello senza il papillon, insomma!
L'album si apre alla grande con la tripletta "Gimme What I Don't Know (I Want)", "True Blood" (citazioni vampiresche a parte), e "Cabaret"; quest'ultima è  la chiusura perfetta di un trio di brani niente male che nascono proprio con lo scopo di far ballare l'ascoltatore. Qualcuno ha criticato l'esagerata lunghezza di "True Blood" (9 minuti e 32 secondi), ma personalmente apprezzo l'ideologia alla base di canzoni tanto lunghe: in quest'epoca in cui il pop è più usa e getta che mai, perché non creare qualcosa di commerciale ma che può essere goduto comunque con la massima calma e attenzione?
Segue "TKO", secondo singolo estratto erede di "Mirrors". In questo pezzo ci si avvicina maggiormente a sonorità hip-hop pur non trascurando quella che è stata fino adesso la produzione di Timberlake.
Non si può ignorare nell'ascolto "Take Back The Night", un omaggio alla soul music anni '70 per poi cambiare registro con "Murder" - decisamente molto più di ispirazione ghetto style e tanto più oscura (dove un ironico Jay-Z se la prende con la pussy di Yoko Ono, addossandole le cause della separazione dei Beatles).
"Drink You Away", è la variazione al tema: chitarra acustica, dinamiche soul-blues per un brano dal ritmo incalzante ma che in realtà parla della fine di una storia che il protagonista non riesce a dimenticare nemmeno grazie a litri d'alcol.
Uno dei brani migliori, davvero.
Da applausi ci sono però, "Amnesia" (adoro quando Justin e Timbaland si cimentano con sonorità old style), e "Only When I Walk away". Quest'ultima, come ormai è stato sbandierato da tutte le parti, è stata campionata da un brano anni '70 dell'italianissimo Amedeo Minghi, ma è il risultato finale quello che conta: un godibilissimo pezzo pop con influenze rock (ma solo influenze, eh), e un finale da stadio con vuvuzela annesse.
Entrambi i brani sono la dimostrazione che quando Timberlake e Timbaland si cimentano nell'attualizzazione di sonorità vintage, riescono sempre a centrare il bersaglio.
Il finale viene affidato a "Not A Bad Thing"+"Pair Of Wings" (hidden track), che riassumono quello che in sostanza è stato il periodo passato con gli 'N Sync ma ri-attualizzato alla sensibilità dell'odierno JT.
Non sono due tracce propriamente in linea con quanto si è ascoltato fino adesso (in entrambi i dischi), dove ritmi soul e caratterizzazioni cupe sono matrice da cui si sviluppa tutto il lavoro ma non nascondo che, per quanto non rientrino tra i miei brani preferiti, smorzano decisamente l'atmosfera e permettono di ricominciare l'ascolto senza troppi intoppi o la sensazione che l'album non si sia mai concluso.

Dunque, tiriamo le somme come promisi nella recensione della prima parte di "The 20/20 Experience" (qui: http://loveformusicandbooks.blogspot.it/2013/04/the-2020-experience-recensione-justin.html).
Sommati, gli album raggiungono un livello davvero ottimo; un po' per la quantità esagerata di brani inediti rilasciati - 22 in meno di un anno non sono roba da poco - e dunque nella quantità è facile si nasconda la qualità per uno come Timberlake.
Un po' per la cura maniacale con cui entrambi gli LP sono stati prodotti: non una sbavatura, non un pezzo fuori posto.
Certo, presi singolarmente alcuni brani possono non convincere ma ascoltando i due album uno di seguito all'altro - ed è per questo che Timberlake ha rilasciato una versione completa intitolata "The 20/20 Experience - The Complete Experience" - si evince chiaramente l'intenzione di fondo che prevede l'omogeneità totalitaria dei due lavori. 
Ciò che Timberlake e Timbaland volevano mettere a segno era una contro-mossa che li riconfermasse signori assoluti del soul e dell'Rn'B moderni: se "FutureSex /LoveSound", possedeva le sonorità futuristiche da cui poi tutti hanno tratto ispirazione del corso degli ultimi sette anni, "The 20/20 Experience" - parte 1 e 2dimostra quanto sia ancora possibile lavorare con sonorità vintage - idee vintage - e riproporre un lavoro comunque moderno e coinvolgente. Di classe, godibile e raffinato come pochi altri. 
Per tutte queste ragioni si può quasi dire che ci troviamo di fronte al miglior album pop del 2013.

Per chiarezza, riporto le varie versioni uscite nel corso dell'anno di entrambe le due parti.

"The 20/20 Experience"
   versione standard
   versione deluxe
  versione vinile

"The 20/20 Experience - part 2 of 2"
  versione standard
  versione deluxe
  versione vinile

"The 20/20 Experience - The Complete Experience"

  versione unica 


lunedì 14 ottobre 2013

Anna Calvi, "One Breath" - Recensione

Anna Calvi -- One Breath

voto: ****

Di anni ne sono passati ben due dall'album di esordio. L'attesa più lunga mai affrontata, sul serio.
Sono diventata Anna-dipendente ascoltando il primo album che tutt'ora rispolvero con piacere ogni volta rinnovato e non vedevo sinceramente l'ora di poter ascoltare questo nuovo lavoro. Volevo sapere cosa ci fosse dietro l'hype spinto che è stato costruito attorno a questa nuova uscita, attorno a questa artista che a mio parere non necessita di tanti orpelli per farsi notare. Ma, si sa, l'industria discografica è diventata brava nel pubblicizzare belle ragazze e a seppellire la loro buona musica sotto tonnellate di fotografie patinate.
Arriviamo al dunque e parliamo dell'album.
E' il secondo album per eccellenza, quello che conferma all'interno di una carriera musicale se l'artista avrà futuro mercato o meno. In termini puramente economici, Anna è decisamente commerciale nell'ambito indipendente soprattutto in madre patria e in Francia.
La sua voce potente e il suo aspetto fisico intrigante, di certo l'aiutano molto a livello di marketing. Ma è la struttura dell'album quella che ci interessa in questa sede e di cui parlerò con sincerità.
L'album è ottimo.
Non ci sono storie di sorta; Anna comincia a essere l'artista matura e completa che ha sempre desiderato essere traendo ispirazione da più fonti e unendole sotto lo stesso stile.
Qui c'è Jimi Hendrix come sempre, ci sono i The Kills e c'è anche Sergio Leone con le sue atmosfere rarefatte ed eroiche da Spaghetti Western. Tutto funziona alla grande e questa commistione crea i sound più disparati alla mercé dei gusti più raffinati.
E' vero anche no, per esempio, che "Sunddently" pare una out take da "Anna Calvi": forse sarà un pezzo ritmato alla "Blackout" ma lo xilofono che ben si distingue in sotto fondo, è una novità assoluta. Si ritorna alle vecchie glorie con "Eliza" (comunque un brano eccellente), è vero ma, dalla traccia successiva avviene il capovolgimento. "Piece by Piece" è così delicata che non pare nemmeno scritta dalla Calvi: mancano le quasi onnipresenti schitarrate (!), il down tempo viene sintetizzato e la voce è ridotta a un sussurro per tutto il brano. Qui Anna si avvicina moltissimo alla sensibilità tipica del duo anglo-americano The Kills, con i loro brani sotterranei e viscerali.
Forse il brano più ispirato del lotto è l'onirica "Sing to Me"; capolavoro di un sentimentalismo inaudito, mai zuccheroso ma sempre glorioso nella sua orchestrazione (ecco il Sergio Leone di cui parlavo prima), piena e d'impatto.
Anche la voce di Anna è particolarmente ispirata in questo nuovo lavoro, prendendo a piene mani dal repertorio di Edith Piaf e riproponendocelo in versione 2013, dimostrando di aver interiorizzato al massimo la lezione della chanteuse francese. 
Non manca di stupire nemmeno "Carry Over Me" con la sua coda finale di archi che chiude il brano in toni quasi di sogno per non parlare della sensualità intrinseca di certi pezzi come "Bleed Into Me" ("(...) go deeper, deeper, deeper").
E anche se sono in maggior numero i brani "lenti" e introspettivi rispetto a quelli arrabbiati o che richiamano la cavalcata delle Valchirie alla "Susan and I", per tutto l'album aleggia un'aura di grandiosità ed eroismo che ormai è sedimento principale del sound della Calvi.
Perfino nei titoli c'è dell'epica come in "Tristan"; ritmo sostenuto, rabbia nella voce e accordi che colorano il brano di accesa rossa passione. Impossibile non farsi trascinare.

Mentre l'esordio fu una magistrale dimostrazione di talento quasi chirurgicamente perfetto, il secondo LP è una caduta libera verso la consapevolezza di sé, della propria arte e di quel lato oscuro e intenso che risiede in ognuno di noi e che Anna ha deciso di esorcizzare mettendo in musica. Il lato gotico della Calvi viene qui messo in pieno risalto - come una sorta di luce che va ad illuminare le parti in origine oscure - nella voce resa raschiante dagli effetti sonori, dalle corde della chitarra tese a creare riff secchi e incalzanti, dalla batteria che pesta ogni colpo con rinnovata ira.
La furia di Anna non si è calmata: è stata invece incanalata verso il dolore.
"One Breath", sta per quell'attimo prima che tutto cambi - non importa se in positivo o in negativo, fa comunque paura e da un senso di vertigine. Anna ci invita ad affrontarlo come un regalo perché ci renderà più forti in un modo o nell'altro, così come è successo a lei.



Ascolti consigliati: "Sing to Me", "Tristan", "Carry Me Over", "Bleed Into Me".

sabato 7 settembre 2013

The Civil Wars, "The Civil Wars"- Recensione

The Civil Wars - The Civil Wars 
voto: *** 1/2

Dopo essersi affermati nel panorama musicale più indipendente e tra i cultori del genere country-folk con un album d'esordio acclamato anche dalla critica, il duo The Civil Wars ritorna con un LP omonimo.
I colori plumbei della copertina sono una sorta di biglietto da visita che introduce al meglio il mood di questo album, oscuro e intimista.
Ma il font delicato utilizzato per scriverne il titolo, lascia intendere che la dolcezza di fondo non se n'è andata.
Un lavoro agro-dolce dunque, quello che ascoltiamo brano dopo brano; un album che inizia con quello squarcio di dolore che è "The One That Got Away" (il brano che più strizza l'occhio al folk-blues dell'intero pacchetto), ed è subito seguito da "I Had Me a Girl" - piccolo gioiellino di blues acustico il cui attacco ricorda inesorabilmente lo stile Black Keys.
Con "Same Old Same Old", arriva la tristezza vera, quella che non ti lascia nemmeno dopo essere passati al brano successivo; una "Dust to Dust" che coglie i Nostri in piena forma.
Uno dei veri gioielli dell'album rimane "From The Valley", imbattibile nell'esprimere all'ennesima potenza l'anima country-folk di Joy Williams e John Paul White. Seguita a ruota da una "Devil's Backbone" che a mio parere, è da brividi.
A livello stilistico e tecnico non siamo di fronte a un LP complesso - proprio come nelle intenzioni del duo - ma abbiamo una serie di brani suonati principalmente in acustica, come vuole la tradizione country, perlopiù arricchiti da accordi in elettrica e da una batteria comunque poco preponderante. E' sul piano canoro che i The Civil Wars si esprimono al meglio, raggiungendo livelli di emozione molto alti e dove riescono a sfaccettare ulteriormente i loro brani cantautorali. 

A tratti questo album appassiona, veramente, mentre quando lo si ascolta con poca attenzione si rischia di perdere la concentrazione necessaria per assorbire un lavoro così intimista e profondo. In ogni caso, è assolutamente consigliato agli appassionati del genere.

Ascolti consigliati: "The One That Got Away", "I Had Me a Girl", "Same Old Same Old", "Devil's Backbone", "From The Valley", "Oh, Henry".

martedì 30 luglio 2013

Gabrielle Aplin, "English Rain" - Recensione

Gabrielle Aplin - English Rain

voto: *** e 1/2

Prima di cominciare con la recensione, devo fare le mie scuse per l'enormità di tempo impiegato a pubblicare quest'ultima fatica: ero bloccata, lo ammetto.
Ma non per questa recensione in particolare ma, più in generale, per una totale mancanza di favella, nonché per una stanchezza dilagante. In ogni caso, alle buone anime che solitamente leggono queste mie poche sciocchezze, rinnovo le mie scuse.
Ma, ora cominciamo...

C'è chi la scambierebbe per una neo-Taylor Swift. Niente di più sbagliato.
A Swifty, questa Gabrielle Aplin, da il giro almeno di  quattro o cinque volte.
Ero scettica anche io all'inizio, lo ammetto, ma sono rimasta affascinata sin dal primo ascolto.
L'album in questione, scorre che è un piacere, e alla fine dell'LP mi sono ritrovata emozionata quanto basta per dirmi soddisfatta.

Gabrielle qui si cimenta con il suo primo LP completo, dopo una serie di EP pubblicati sporadicamente e abbastanza trascurabili, ad esclusione della magnifica cover "The Power Of Love" . Giovanissima, classe '92, nata e cresciuta in un paesino sperduto della campagna inglese (su Wikipedia non si trovano più di tre righe sulla sua autobiografia), pareva impossibile che potesse maturare tanto talento e invece, eccola qui.
Con un repertorio di brani piuttosto lungo per un'opera prima, la Aplin si cimenta come una giovane Joni Mitchell tra problemi di cuore, esistenziali e sentimentali più in generale.
L'album si apre con "Panic Cord", una ballata baldanzosa - da scusare il gioco di parole scemo - che è un bel biglietto da visita per la nostra. Un mix ingegnoso tra la più datata Dolly Parton e i recentissimi Of Monsters And Men.
"Keep on Walking", si conferma nuovamente come una bella rilettura di quelle che sono le sonorità neo-folk di band come i già citati Of Monsters And Men o come i The Lumineers, con quelle percussioni insistenti in sottofondo e i cori a più voci a colorare le strofe.
"Please Don't Say You Love Me" e "How do You Feel Today", non sono particolarmente brillanti e forse i brani più "infantili" dell'album, ovvero quelli che mostrano meglio la vera età di Gabrielle per contenuti poco originali e dinamiche melodiche poco complesse. Nel complesso però, risultano piacevoli e cosa non trascurabile, estremamente in linea con il resto del lavoro.
Segue "Home", che è entrata immediatamente tra i miei ascolti obbligatori giornalieri: qui la Aplin si cimenta con il concetto universale di "casa", intesa come il luogo dove fare sempre ritorno e sentirsi al sicuro. Parte in sordina, ma poi - con i sempre ben accetti cori che rinforzano la voce principale nei ritornelli - esplode sul finale, con percussioni in primo piano che abbracciano la voce eterea di Gabrielle. La stessa struttura caratterizza la canzone seguente, la più intimista e personale "Salvation"Mi piacerebbe proprio sapere chi o cosa ha ispirato una canzone tanto bella, perché quel "you are the avalanche" che apre le lyrics è proprio da pugno nello stomaco, come tutto il brano, del resto. Pochi accordi al pianoforte e la voce della Aplin amplificata che vanno ad intrecciarsi agli archi a metà brano e il boom finale, che strizza l'occhio ai tipici brani da soundtrack ad effetto. Sono tramortita, colpita e affondo.
Risalgo in superficie e torno a respirare con la dolce e folk "Ready to Question", per poi venire ributtata nelle acque più profonde ed emozionali da "The Power of Love"; delicata all'inverosimile e impossibile da associare nell'interpretazione a una ragazza tanto giovane.
"Alive", ha una magnifica introduzione e un ritmo incalzante fin dall'inizio ma ecco che si distende e si dilata nei chorus pur mantenendo costante la tensione che emerge dal testo; "No, is never your fault".
Con "Human" però si conclude il ciclo di brani memorabili dell'album che termina scemando e perdendo forza, prima con "November", che per carità non è malvagia ma è tanto al sapor di scuole medie, passando poi per "Start of Time" - di cui però apprezzo la costruzione di accordi che fanno da sottofondo per tutto il pezzo e concludendosi con la bonus track, "Take Me Away".

In conclusione, nonostante gli scivoloni qua e là, si tratta di un'opera prima ottima e pregiata, molto curata in fase di produzione soprattutto se consideriamo l'età della sua autrice.
Apprezzo la schiettezza che Gabrielle mette nei suoi brani, creando picchi emozionali di intensità quasi insostenibili, abbinando il tutto a brani piacevoli, adatti a tenere compagnia durante viaggi lunghi.
Una voce giovane e delicata, mai fuori dalle righe - sempre composta e poco costruita - che sposa pienamente il genere che Gabrielle ha scelto di suonare: un bel mash-up tra folk contemporaneo, coutry e cantautorato.
Nella speranza che Gabrielle possa solo migliorare con il passare degli anni, un po' come il buon vino, per il momento va promossa con ottimi voti.

Hope Valentine.

mercoledì 19 giugno 2013

"The Great Gastby" OST - Recensione

The Great Gatsby OST - Deluxe Edition

voto ***

Recensione lampo di una colonna sonora che sarà un "lampo".
In senso stretto perché ha fatto tanto parlare di sé prima della pubblicazione, ha ricevuto qualche riconoscimento e molte critiche ora che è sul mercato ma di cui ricorderemo poco in futuro. E non perché sia poi così tremenda, intendiamoci, ma nemmeno così sensazionale come il produttore esecutivo Jay Z ci ha voluto vendere.
Ebbene sì, in mezzo a questa commistione di sound e generi c'è proprio il rapper di "The Blueprint" per intenderci, che è uno che di hip-hop ne ha sempre capito un sacco.
Ma questa volta cilecca, non in modo esagerato si capisce, eppure non riesce a centrare in pieno il bersaglio. La colonna sonora presenta picchi altissimi tra brani che sono già cult e fantastiche, tipiche spacconate nigga style, per poi crollare in un buco nero profondo di poca pertinenza con il film (che ho visto e le cui scene in abbinamento ai brani ho ben presente).
Si sa, la colonna sonora  - che sia composta di canzoni vere e proprie o di uno score - è una storia dentro la storia e il massimo assoluto lo si raggiunge nel momento in cui presa singolarmente riesce a narrare pieghe e risvolti che faticherebbero a trapelare con le sole immagini.
E dunque come non apprezzare la cafonaggine stilosa di "100$ Bill": bar nascosto dietro la barberia dove regnano fiumi di alcool, ballerine nere mezzo svestite tra pailettes e lustrini e uomini ricchi e neo-ricchi che sfoggiano tutta la loro potenza sociale ed economica anche solo presenziando in quel luogo malfamato.
O come non amare la scena post-party al ralenty dove una dolcissima - e meravigliosa - "Over The Love" fa da eco infinita? O la versione foxtrot di "Young And Beautiful" durante i festeggiamenti sfrenati che diventa poi theme d'amore tra Gastby e Daisy? O "Together" dei The xx che, eterea, torna più volte a mano a mano che ci si avvicina verso il finale.
Tutti momenti meravigliosi che si sono impressi nella mia mente come fotografie al negativo.
E ce ne sarebbero altri che non sto ad elencare perché poi penso a certi passi falsi da paura come la presenza di un remix inutile di "Over The Love" (ancora?!), o la cover spaventosa in stile jazz anni '20 di "Crazy in Love" : voglio dire, va bene cercare dell'autocompiacimento ma addirittura arrivare ad autocompiacersi anche per le hit della propria moglie no, eh! E Beyoncé in prima persona coverizza a sua volta un'altra grande hit (ma che sta almeno cinque spanne sopra alla sopracitata), che è quella meraviglia di "Back to Black" di Amy Winehouse qui rovinata nel suo significante dalla presenza di Andrè 3000.
Niente da dire sulla cover di Jack White del brano degli U2, "Love Is Blindess" (esplosione orgasmica nel padiglione auricolare).
Ma voterei zero Gotye che per quanto io adori, qui coverizza se stesso in un vecchio brano facente parte di un album addirittura del 2006. Fantasia zero. Eppure i ri-arrangiamenti sono ottimi e questo mi ha fatto venire ancora più rabbia.
Menzione d'onore per il brano di Sia, "Kill And Run", composto appositamente per il film e che sul finale ha un crescendo da brividi sottopelle. Non commento nemmeno invece i due brani tamarrissimi (ok, il commento mi è scappato lo stesso), di will.i.am e Fergie: non appena ne sento le prime note premo il fast-foreward.
La versione Deluxe è apprezzabile perché presenta la versione orchestrale di "Young And Beautiful" della Del Rey che devo dire, rende il doppio grazie all'arrangiamento curato da Craig Armstrong. Di tutti gli altri extra, facevamo anche a meno.

Per quanti pregi questa colonna sonora abbia, nel complesso si perde molto del quadro generale e non si riesce a percepire con chiarezza tutta la grandezza che forse si desiderava trasmettere.
Riprovaci, Jay Z.

Ascolti consigliati; "100$ Bill", "Love Is Blindness", "Love Is The Drug","No Church In The Wild", "Over the Love", "Together", "Kill And Run", "Young And Beautiful (DH Orchestral Version)".

Hope Valentine.







mercoledì 5 giugno 2013

She & Him, "Volume 3" - Recensione



She & Him - Volume 3
voto ** 1/2

Ok, forse con il voto sono stata un po' cattiva. E' impossibile non adorare gli She & Him, duo americano molto alternativo capitanato dalla bella Zooey Deschanel accompagnata dall'inseparabile Matt Ward. Zuccherosi e svenevoli fino al tracollo. Di chi ascolta.
Appunto.
Seriamente, la loro ultima fatica,"Volume 3" (che fa seguito a un "Volume One" e a un "Volume Two", perché i ragazzi hanno molta fantasia), non è così disprezzabile come si potrebbe capire da questo incipit. Eppure non mi convince appieno.
Per chi non li conoscesse, è facilmente interpretabile dalla copertina qui accanto che il duo in esame tratta materiale vintage. Molto vintage. Non che sia per forza un male - io sono fanatica del vintage, per esempio.
Il problema fondamentale a mio avviso è che l'album manca di inventiva. E' esplicitamente, palesemente, dichiaratamente, il seguito degli album precedenti, nonché riconferma dello status di cantori di canzoni "d'ammmore" anni '60. 
Non che sia un male, ripeto, ma arrivata alla traccia numero quattro - "I Could've Been Your Girl" - non ce la faccio più e devo interrompere l'ascolto per pericolo diabete in agguato dietro l'angolo.
Lo riprendo dopo un po' di tempo, magari qualche ora in cui sono riuscita a depurare il mio organismo, e riesco ad arrivare fino alla fine.
Al che mi accorgo che non è affatto un prodotto fatto male e tirato via e che qualche cosa di interessante ce l'ha. La produzione è ottima e molto raffinata. Zooey non è mai stata una gran chanteuse, ma è proprio questo il suo fascino.
Allora cosa è andato storto? Niente, questo è il punto: sembra il compito in classe del secchione di turno che si cimenta in una ricerca sui sound che hanno caratterizzato il rock bianco degli anni '50 e'60, con qualche incursione negli anni '70.
Troppo perfetto, troppo di plastica in tutta la sua dolcezza disarmante.
Le lyrics di Zooey si fanno più mature ma parlano quasi sempre della stessa cosa: "I've Got You're Number, Son", omaggio al surf-rock dei Beach Boys. La malinconica "Turn To White" e la baldanzosa "Somebody Sweet To Talk To". Immaginate un po' di che cosa parlano?
Le cover si salvano, come "Baby" o "Sunday Girl", e c'è perfino qualche guizzo di originalità con una spruzzatina di jazz a far capolino come un clandestino beccato allo sbarco senza documenti: "London", è forse il momento più alto dell'album e il più ispirato della Deschanel.
"Hold Me, Thrill Me, Kiss Me" è Elvis Presley 2.0 ma apprezzabile come una vagonata di zucchero filato assunto nell'arco di un intero pomeriggio.
E quel "Reprise (I Could've Been Your Girl)": dopo il primo minuto di "Uhuhuhuhuh", ci ho rinunciato e ho fatto ripartire l'album dalla traccia numero uno.

Le tre stelline non potevo darle, proprio per coerenza morale. Nonostante ci troviamo tra le mani un album, come già detto, dalla fattura pregiata.
E nonostante io adori questo duo e ogni tanto passi il tempo a fantasticare sulle note dei loro brani - in estate e durante i lunghi viaggi in macchina sono ottimi - non posso comunque dire che gli She & Him si siano impegnati troppo.

Ascolti consigliati; "I've Got Your Number,  Son", "I Could've Been Your Girl", "Snow Queen", "Sunday Girl", "London".

Hope Valentine.

venerdì 10 maggio 2013

James Blake, Overgrown -- Recensione

James Blake--Overgrown
voto **** e 1/2

Eh già, ho tutte le intenzioni di osannare questo LP.
Incuriosita dalla recensione negativissima e pesantissima assegnata da Rolling Stone Italia, ho voluto ascoltare anche io questo album tanto per capire se dovevo aggiungermi al coro dei "A morte!!", oppure no.
Invece sono rimasta imbrigliata nella rete emotiva che James Blake costruisce; impigliata senza possibilità di tornare indietro e mai pentita di avere fatto una passo verso l'ignoto.
Ignoto perché ammetto che mi ero persa il suo album d'esordio del 2011, osannato dalla critica come un masterpiece (eh, abbiate pazienza; non faccio il mestiere di critico musicale e non sono neanche lontanamente dell'ambiente per cui le mie possibilità di venire a conoscenza di nuove uscite è assai limitata), tanto che si sono dovuti inventare un nuovo nome per definire la musica di questo giovane musicista: post-dubstep (-soul).
Comunque, se vi lascerete trascinare all'interno di questo LP intenso, muscolare, studiato fino al dettaglio più insignificante, cerebrale ma liberatorio allo stesso tempo, non ve ne pentirete.
Fin dal primo brano - la title track Overgrown -  la voce ambivalente di James Blake trasmette intensità e intenzione; alti e bassi - anzi, altissima catarsi e bassissima introspezione - desolazione dell'anima e beat malinconici.
Un uso della voce classicamente soul che si mescola a suoni elettronici perfetti, pieni e corposi.
Life Around Here per esempio, ha una base simil trip-hop su cui scorre la voce vellutata di Blake che ti accarezza l'anima con fraseggi e costruzioni vocali puramente soul-gospel.
Si passa da intricate realtà psicologiche dettate da beat e registrazioni in loop di schemi vocali strazianti, a brani semplici dove è il pianoforte a primeggiare perfino sulla voce; come in Dlm che scorre con amarezza e solida tristezza.
Oppure To the Last, che è emotivamente perfetta: la vocalità di Blake si avvicina in maniera pericolosa a quell'intensità propria di un'interpretazione di Antony Hegarty o di un ispiratissimo Bon Iver.
Lentamente si scivola verso la dolce e pacata conclusione di questo album che nella versione Deluxe si conclude con una Every Day I Ran; qui c'è più caos, il disagio di chi vive da disadattato è palpabile. Sembra un esorcismo, potrebbe suggerire disordine e perdizione ma nella quasi totale mancanza di lyrics sensate e compiute e nella sistematicità dei beat, l'ordine c'è eccome.
Sperimentazione coraggiosa anche nelle collaborazioni presenti in questo full-length: Take a fall for Me, è un mezzo demone con cui combattere. Prima delle due collaborazioni presenti nell'LP, è forse il brano meno collocabile perché spezza un po' l'andamento generale dell'album. Il featuring di RZA (leader di fatto del Wu Tang Clan), è un hip-hop sintetizzato, sommesso e non troppo di classe come invece arriva all'orecchio il resto del lavoro di Blake.
Mentre l'altra collaborazione dell'LP è quella con Brian Eno, che ho preferito: Digital Lion è una sorta di danza tribale claustrofobica composta da quattro minuti intensi, metodicamente perfetti fatti di sinth e un' alternanza di voce e post-dubstep ridotto all'osso.

Dopo averlo ascoltato un paio di volte ho ben capito perché chi ama il rock puro e crudissimo - e soprattutto non ha la mente abbastanza aperta ma rimane fossilizzato su preconcetti dell'era mesozoica - non possa apprezzare un album di questo calibro:
troppo introspettivo, troppo lento e troppo studiato nel dettaglio per chi apprezza i sound immediati e molto più istintivi del rock n' roll (che è poi lo stesso mondo da cui "provengo" io).
Eppure le persone che lo hanno stroncato sono le stesse che magari osannano Nick Drake, morto forse suicida giovanissimo e cantautore dell'introspezione e dell'emotività più cupa.
Io sono convintissima invece che scegliere percorsi alternativi sia tutt'altro che una mossa logica o studiata a tappeto ed è per questo che nonostante tutta la ricerca, la preparazione pre-registrazione, io riesca a vedere l'immediatezza e la genuinità di questo ragazzo che riesce a esprimersi solo mescolando generi all'apparenza opposti, in un nuovo modo di comunicare e fare musica.

Ascolti consigliati: "Overgrown", "I Am Sold", "Life Around Here", "Retrograde", "To the Last" e "Our Love Comes Back".

Hope Valentine.

mercoledì 17 aprile 2013

Paramore--Paramore, recensione. "Some of us have to grow up sometimes, and so, if I have to, I'm gonna leave you behind"

Paramore--Paramore
voto *** e 1/2


Ho voluto inserire nel titolo questo verse del brano Grow Up, perché emblematico della nuova produzione della band pop-punk americana Paramore.
Dal 2009, anno di pubblicazione del loro ultimo album - l'acclamatissimo dai fan e premiatissimo in quanto a vendite, Brand New Eyes - non si erano più fatti sentire con nulla di nuovo. Solo qualche live sporadico, qualche versione acustica di vecchi brani e singoli inediti qua e là per quietare le masse scalpitanti di teenagers affranti. Separatisi e poi riformatisi, sopravvissuti al ciclone del successo, cresciuti ma non troppo e con una formazione di nuovo ben salda, sono tornati per farci scatenare ancora una volta.

Che il loro intento sia quello di fare capire agli ascoltatori che sono cresciuti e sono riusciti a passare sopra alla scissione del gruppo, è chiaro fin dal primo brano, Fast In My Car, dove cercano disperatamente di prendere le distanze da quella che è stata la loro produzione fino ad ora. Nel caso fosse proprio così e non un mio viaggio: epic fail, devo dire. Il brano nel complesso è piacevolissimo e dal ritmo incalzante ma non fa così tanto la differenza come vorrebbe la band per quanto siano apprezzabili i riferimenti nel testo ad album del passato come Riot, come a voler sottolineare il passo avanti fatto.
Segue l'ormai noto singolo Now, dalle tematiche un po' più mature e dalla chitarre un po' più incazzose, ma dalla ritmica ri-trita e dalla produzione un po' piatta.
Grow Up, eccola alla posizione numero tre a fare da spartiacque: nulla di strepitoso - lineare come solo un brano pop-punk può essere (!) - ma molto piacevole soprattutto perché da qui in poi comincia a risaltare il miglioramento fatto dalla voce di Haley Williams che diventa sempre più brava ogni anno che passa.
Alla numero quattro troviamo una canzone molto "paramoriana"; una Daydreaming ambientata nella Los Angeles in cui la band si è trasferita da qualche tempo a questa parte e da cui ha ricominciato da zero. Molto simbolico, devo dire.
Cominciano le sorprese con Interlude: Moving On... un ukulele?! Ma sono diventata sorda io oppure si tratta veramente di uno strumento totalmente inedito per questa band? Scherzi a parte, questo piccolo intermezzo che poi proseguirà con delle ideoligiche parti II e III (Holiday e I'm Not Angry Anymore), non hanno un senso logico particolare. La loro presenza è giustificata dal fatto che fanno raggiungere all'intero LP quota ben 17 inediti, e spezzano un po' il ritmo generale dell'opera che tra alti e bassi caracolla lentamente verso il finale. Al momento li trovo piacevoli e non fastidiosi o inutili, la loro funzione è puramente di intrattenimento e non hanno la pretesa di essere considerate delle punte di diamante; raccontano la storia di una persona qualunque - uno chiunque di noi - che passa attraverso le varie fasi della vita, descritte in pochi minuti di voce e ukulele.
Con Ain't It Fun si comincia a carburare. Brano grezzo e ancora immaturo ma è già un grande passo avanti rispetto a quello che i Paramore sono stati fino a ieri; giro di basso funky messo ben in evidenza davanti alla chitarra e finale con coro gospel da u-r-l-o. L'unica pecca sono le parti synth che risultano un po' troppo piatte e bidimensionali.
Part II si presenta come la ripresa del vecchio, con rielaborazione in nuovo: una sorta di auto-celebrazione e celebrazione ai fan che potrebbero riconoscere il brano originale solo se assidui ascoltatori (per la cronaca, trattasi della rielaborazione del brano Let The Flame Begin, comparso sul secondo full length della band, "Riot". Non è stato nemmeno un singolo e non ne esiste una versione "lyrics video").
Molto carina invece, Last Hope che trovo anche molto diversa dalle ballad proposte in passato dalla band. L'andamento è molto lineare e melodico, decisamente catchy il ritornello, con chiusura corale che più adatta di così non si poteva. Ottima.
Uscito poco prima dell'LP, abbiamo il singolo Still Into You; anche qui nelle lyrics troviamo riferimenti ai vecchi lavori della band - ditemi che non li vedo solo io - e in sé per sé il brano non è nulla di originale ma la voce della Williams è cristallina e potente e risolleva qualsiasi brano che sia un ciofecata mondiale o meno.
Anklebiters, è proprio punk - sia per ritmo che durata - e caricata a molla per esplodervi nelle cuffie e, ci voleva proprio dopo esserci rilassati con i due brani precedenti. Proof, comincia bene e poi si perde un po' nell'anonimato forse proprio perché sta in coda a un proiettile del calibro di Anklebiters.
Hate To See Your Heart Break è uno di quei pezzi così ruffiani e tutto sviolinate che farebbe piangere anche il fan più accanito di David Guetta. Credo si tratti di uno di quei brani puramente cinematografici, perfetti per essere scelti come parte dell'OST di un qualche film comico-romantico. Ma forse volo troppo di fantasia.
A seguire troviamo una chicca, molto meglio del brano precedente, (One Of Those) Crazy Girls; intro impeccabile, con una sessione ritmica delicata ma perfettamente in tema e intelligente utilizzo di archi e cori che fanno da sfondo perfetto per la storia d'amore messa in scena. Divertentissima.
Be Alone è un altro pezzo veramente "paramoriano", il che non vuole essere una definizione ma solo un dato di fatto... cioè quelle sonorità già presenti a livello embrionale nei precedenti lavori che qui vengono tirate fuori con più decisione e rielaborate nel nuovo gusto musicale della band. Il sound è quello del primissimo "All We Know Is Falling", ma reso più adulto e adattato a un pubblico che può oscillare dai neofiti teenagers ad ascoltatori ora più maturi che seguono la band dagli esordi.
L'album si chiude con il pezzone Future: al primo ascolto è stato subito amore.
Giuro che se il titolo vuole essere foriero della strada che i Paramore vorranno musicalmente percorrere in futuro, ne sono più che felice e li seguirò finché avrò cent'anni. Cattivone, nudo e crudo. Otto minuti di apprezzabile e sporco rock e io sono soddisfatta perché anche se abbiamo fatto un po' di fatica siamo giunti a giusta conclusione di un album sperimentale - a causa di un sound ancora da definire e che non ha trovato una compattezza ideologica il che lo rende frammentario e ancora un po' incoerente - e di passaggio.
Le lyrics nel complesso sono ancora acerbe, i Paramore non hanno ancora raggiunto quella maturità compostiva che permetterebbe loro di fare il passo avanti che tanto agognano.
Sono ancora lì, a metà via tra l'università e il mondo del lavoro, tanto per fare un paragone, ma il futuro fa ben sperare:

"So, just think of the future,
Think of a new life.
And don't get lost in the memories,
Keep your eyes on a new prize."


Future, Paramore.


Hope Valentine.




venerdì 12 aprile 2013

"Specter at The Feast" vs. "Comedown Machine" - questa volta, il mash-up lo faccio io!

Lasciamo stare i voti, almeno per oggi. No dai, almeno per qualche riga.
Preciso come sempre che la recensione che segue non vuole essere seria o professionale; cioè, un po' di verità c'è ma mentre la pensavo ho riso talmente tanto che non può che venirne fuori l'ennesima cavolata.
Ma partiamo con ordine...

Dopo dieci anni di forzati scontri voluti dalle maggiori testate musicali del mondo, per uno scherzo del destino - forse voluto, ma non è chiaro da chi - The Strokes e Black Rebel Motorcycle Club si scontrano di nuovo sul piano di singoli, nuove uscite e LP recensiti malissimo o osannati da entrambe le parti.
Per chi non fosse informato dei fatti, più di dieci anni fa queste due band pioniere del rock indipendente venivano messe a confronto, entrambe novelle del panorama musicale ed entrambe innovative in un periodo stagnante a livello di novità.
Perfino la seconda uscita di entrambi i gruppi coincise temporalmente ma fu sempre più chiaro che la band capitanata da Casablancas e quella da Levon Been si riproponevano generi completamente diversi. Dopodiché le uscite e i generi proposti furono così distanti che a metterli in competizione non ci si pensò più.
Circa.
E' a questo punto che si arriva all'anno 2013 corrente ed entrambe le band si riaffacciano con una nuova uscita nello stesso mese e i primi singoli addirittura lanciati o annunciati nello stesso periodo. E pensa un po', entrambi hanno messo in streaming i loro album con qualche giorno di anticipo sulla pubblicazione "fisica" del loro ultime fatiche.
Ma per Luilassù, ci pigliate per il deretano? Finalmente eravamo riusciti a dimenticare vecchi attriti e stantie diatribe per poterci finalmente concentrare sulla vostra musica, e ora ci confondete le idee un'altra volta?!
Questa volta il dubbio è bello grosso; entrambi usciti in Marzo, copertine che fai fatica a distinguerle non possono essere una comune COINCIDENZA.
Ma le similitudini finiscono lì, ve lo garantisco.
E uno dei due album, l'ho preferito più dell'altro e in questa sede rivelerò quale..."Chissene", direte voi.
Avete anche ragione.


"Specter At The Feast"-- Black Rebel Motorcycle Club

Oddio sono tornati. Oddio, cosa avranno in serbo per noi ascoltatoruncoli medi? Un ritorno agli splendori del passato di BRMC? Qualcosa di folk-bluesy come fu l'azzeccato Howl?
Alla fine è tutto e niente. Questo Specter At The Feast è un pasticcio melenso, denso e lento della stessa minestra riscaldata da più di dieci anni di assiduo ascolto.
Chi conosce bene questa band, chi li ascolta fin dagli inizi non potrà mancare di riconoscere alcune sonorità già proposte in vecchi lavori (giuro che l'introduzione di Sometimes The Light mi ricorda in qualche modo l'intro di All You Do Is Talk), o al contrario non riconoscerne affatto; come non sentire la mancanza di pezzi energici dal cipiglio "spacco-tutto-e-poi-passo-sopra-alle-macerie-e-le-calpesto" di una Berlin, o quella follia malinconica e cantautorale che permeava sì tutto Howl, ma fuoriusciva da pezzi come Fault LineAin't no Easy Way?
Tutto sommato non è un lavoro fatto male, anzi è curato nei dettagli e nelle sfumature ma manca di quel quid, che lo avrebbe potuto eleggere ad album indie dell'anno. Perché i Black Rebel, le carte in regola ce le hanno ma sfruttano sempre la stessa formula senza aggiungere o togliere niente. Nemmeno l'ingresso nella formazione della nuova batterista Leah Shapiro  - presente già nel precedente Beat The Devil 's Tatoo - ha modificato il pacchetto e l'offerta: le solite ritmiche, i soliti schemi melodici, il solito Robert Levon Been che nulla varia nel suo cantato malinconico e dalla bassa intonazione senza troppo sbalzi.
Tirando le somme, si tratta di un lavoro piacevole in cui spiccano brani meglio riusciti di altri, una su tutte la cover di Let The Day Begin brano originale dei The Call, band del defunto padre di Robert, e quella cupa Some Kind of Ghost che sembra la colonna sonora perfetta per un rito sciamanico (non scherzo, è ipnotizzante!). Un lavoro che però necessita di più e più ascolti prima che il senso generale divenga chiaro e si riesca a distinguere una traccia dall'altra. Specie il trittico Hate The Taste - Rival - Teenage Desease: ah, ok carichi come pezzi peccato che a un primo ascolto paiano tutti e tre uguali vista la poca fantasia con cui sono stati prodotti.
Per carità i BRMC, restano i BRMC e per qualsiasi sbarbatello che voglia avvicinarsi al mondo della musica indipendente, sono un ottimo inizio. L'inizio sì, ma non l'approfondimento e la continuazione dell'argomento a meno di non risalire ai loro vecchi LP, ben più validi.

Ascolti consigliati; Let The Day Begin, Returning, Some Kind of Ghost, Sell It.




"Comedown Machine"-- The Strokes

Oh ca**o! Non si sono sciolti gli Strokes! Oh, ma porca ***!! Sono usciti con un nuovo album con meno di mille anni di distanza dal precedente?!
Ehi, ma perché non hanno pubblicato la solita copertina da psycho che hanno sempre proposto fin da inizio carriera? Questa è semplice... lineare... wow, sono rapita!
Va bene, tornando a fare la persona seria, quest'album mi è proprio piaciuto.
Mi piace sì, cavoli.
E' fresco, veloce, innovativo per il genere indie - prosegue con le sonorità già proposte in Angles ma le compatta in un unico sound coeso - e innovativo anche per il genere di cui gli Strokes sono sempre stati portabandiera (quale, vi chiederete? Io lo chiamo genere cazzaro, ubriacone dismesso con i fuochi d'artificio sul finale).
Tenuto nel mistero più assoluto fino a meno di sette mesi fa, questo album è stato da alcuni definito un "aborto spontaneo"; una sorta di auto-escavazione della fossa da parte di questa band; "una merda" su tutti i fronti e altro ancora che non sto qua a riportare. Eppure io lo trovo fantastico non solo perché i The Strokes sono una delle poche band litigiose tra loro ma capaci di portare ancora un po' d'aria fresca tra le dinamiche cementizzate del mainstream e dell'indie più estremo ma anche perché tentano, esplorano, si rinnovano sempre con ironia auto-inflitta. La critica li da per morti e sepolti a ogni nuova produzione post Is This It? E loro rispondono incazzati, mai uguali a loro stessi, sempre indossando il guanto di sfida e con quel sorrisetto stampato in faccia che solo chi, come loro, proviene dal successo consolidato e può permetterselo.
Come non adorare Tap Out, con cui l'album si apre, danzereccia apripista? Welcome To Japan per esempio è troppo simpatica solo per il titolo e l'idea alla base di questo pezzo funziona proprio, con quel suo groove spinto anni '80.
Insomma, quelli che sono stati additati come punti deboli io li considero i loro punti di forza e non perché sono una bastian contrario, ma proprio perché apprezzo le sperimentazioni fatte con gusto e intelligenza.
Ed è proprio il caso di Comedown Machine.

Ascolti consigliati; Tap Out, One Way Trigger (sì, il mostro che ha spaventato i critici di mezzo pianeta!), Welcome To Japan, 80'Comedown Machine, Happy Ending (giusto per ricordare da dove viene questa band), Call It Fate, Call It Karma (vera e grande, piacevole sorpresa dell'album).

post scriptum; finalmente stringo tra le mani la mia copia originale dell'LP (sì, sono ancora uno di quei poveri disgraziati che spende soldi per comprare CD!), e finalmente la apro per andare a curiosare nel booklet prima di iniziare l'ascolto vero e proprio, cosa che faccio sempre perché sono una maniaca del packaging degli album. I miei occhi non ci possono credere quando "svolgo" il booklet e si rendono conto che come al solito, questi cinque sono dei fuori di testa. Ok, la cover non sarà da psycho ma almeno il booklet sì (e io sono contenta).






giovedì 4 aprile 2013

Laura Jansen - "Elba"; un album dedicato alla nostra isola.



Laura Jansen--Elba
voto ** 1/2

Sono indecisa nel definire il genere musicale che quest'artista abbraccia; pop-chic? Cantautorato di nicchia? Elettro-pop? In ogni caso, sia che siate suoi fan o meno, è impossibile negare che la ragazza non sia etichettabile.
Punto a favore.
Che poi non sia particolarmente innovativa e originale, è un altro elemento in evidenza all'analisi.
1 a 1 per me.
In Italia è praticamente sconosciuta non solo radiofonicamente ma anche sulla rete, nei canali più indipendenti e sulle pagine di recensione musicale.
Non sono riuscita a trovare praticamente nulla sul suo conto se non la pagina su "san" Wikipedia che spiega di come la fanciulla sia di origini olandesi ma naturata in America e che da lì sia partita la sua carriera musicale oltre oceanica, grazie alla delicata cover di un brano dei Kings of Leon (Use Somebody, per la cronaca), seguita da un primo album di inediti intitolato Bells.
A Laura piacciono i titoli brevi e quindi eccola tornare quest'anno con Elba, sua seconda fatica composta da undici tracce altalenanti. Qualcosa di buono c'è in fondo, ma affoga dietro a suoni sintetizzati che a mio modestissimo parere, poco o nulla azzeccano con la delicatezza innata in questa fanciulla e ciò che vuole dire.
La prima traccia, The Lighthouse, parte e io penso: "Ohcristogesù, ma che roba è? Tylor Swift in salsa indie?". No, per fortuna e a sprazzi le due si riescono anche a distinguere ma nel complesso, il brano delude le aspettative. Arriva il turno di passare al macero per Queen of Elba brano radio-friendly e tralasciabile; non è malvagio, beninteso che è preferibile - tanto per proseguire con il paragone - a una 22 Swiftiana, ma ancora non ci siamo perché io possa gridare "al miracolo!".
Finalmente cominciamo a ragionare quando inizia il terzo brano, Goldie: è sempre sull'allegro-moderato (!!), ma ha una qualità in salita, più intensa e articolata.
Finalmente vedo la luce in fondo al tunnel quando ascolto A Call To Arms, intensa ballata al pianoforte che nel ritornello prende forza con il featuring di Ed Harcourt ma da sola non basta per spazzare via lo scivolone stilistico del brano che apre l'LP.
Molto graziosa e già più accettabile, una Little Things (You), che cerca di infondere buonumore riuscendoci e che si ispira liberamente alla produzione di Florence&The Machine nel ritornello corale e pomposo.
Anche Same Heart si piazza tra i brani salva-vita che Laura Jansen è riuscita a sfornare per questo album; non un diamante certamente, ma molto più accettabile di brutture come Around The Sun o la cover di Smalltown (Come Home), senza un capo né una coda e senza il minimo cipiglio di originalità. Specie per l'imperdonabile cover dei Bronsky Beat  - Smalltown (Come Home), per l'appunto - a cui come primo epic fail cambia titolo, poi la riduce ai minimi termini in questo rifacimento scombussolato di un capolavoro anni '80 intoccabile se almeno non provi a reinventare un po' e a dare quel qualcosa in più che altrimenti rischia di far passare il brano per una session di prova in studio. Poco impegno e poco onore al pezzo originale.
Già un pochino meglio in chiusura Light Hits The Sun - sperimentale e delicata in giusta misura - insieme al duetto Paper Boats e Pretty Me: la cosa che fa rabbia e ridere al contempo, è che proprio all'undicesima traccia Laura Jansen, pare svegliarsi - ricordandosi chi è e che cosa fa - e crea qualcosa di indimenticabile, che lascia un segno profondo nell'ascoltatore. La ballad Pretty Me è un gioiello in chiusura di un album mediocre, che lascia senza fiato per la dolcezza della melodia e la crudezza delle lyrics: "Two bags, a ticket, a couch in L.A. Nothing left to prove, finally something to say (...)But I got no job, I got no car, no Driver's License, no cash, no savings, no heath care, no furniture, no place to live, no RIA (...)".

Forse la nostrana isola d'Elba, ha ispirato l'artista solo per musicalità del nome perché non colgo gli elementi che possano collegare questo LP con il suo titolo. La discontinuità è presente, alla luce della mia analisi, anche all'interno della tracklist che presenta momenti di bassezza quasi inquietanti a picchi di intelligenza e novità a sprazzi.

Laura, riprovaci con il terzo album, lo aspetterò, lo giuro, ma almeno se ti può aiutare ricomincia scegliendo un titolo un po' più sensato!


Tracklist completa:

  1. The Lighthouse
  2. Queen Of Elba
  3. Goldie
  4. A Call To Arms (ft. Ed Hacourt)
  5. Little Things (You)
  6. Same Heart (ft. Tom Chaplin)
  7. Light Hits The Room
  8. Around The Sun
  9. Smalltown (Come Home)
  10. Paper Boats
  11. Pretty Me

 
 


Hope Valentine.




martedì 2 aprile 2013

The 20/20 Experience - recensione. Justin Timberlake e la nuova calibrazione del genere Funky


JT--The 20/20 Experience (Deluxe Edition)
voto *** e 1/2

"God save the... King of pop!".
Sempre che ne esista ancora uno dopo la prematura dipartita del sovrano supremo, Michael Jackson.
Siamo rimasti orfani, tutti quanti, di un genio incommensurabile che sapeva trarre spunto da tanti generi musicali per poi condensarli in un unico stile personale.
Tutti, ma proprio tutti -  dai tipi più esigenti e indie come gli hipsters, anche se non lo ammetterebbero tanto volentieri, ai rapper neri e pieni di catenone d'oro - rispettavano MJ, come il fenomeno che era.
Cosa è cambiato subito dopo?
Semplicemente per colmare quel vuoto lasciato da Mr. Jackson, siamo stati sommersi da artisti plasticosi che avevano poco da dire, con squadroni di super-produttori alle spalle che si limitavano a fare il compitino e a creare pezzi commerciali, di plastica pure quelli, che hanno inquinato - e continuano a farlo - le nostre povere e sensibili orecchie.
Qual' è allora il metro di giudizio per elevare un'opera comunemente etichettata "pop", a una statura più elevata, meno mainstream, e più accurata, raffinata, elaborata ed eleggibile a nuova pietra miliare? Non esiste. Trattasi di mero giudizio personale.
Tutto questo giro di parole per specificare fin da ora che no - non sono un' amante sfegatata del cosiddetto "pop", eppure ci sono titoli che non possono essere ignorati nemmeno quando hanno una diffusione così popolare e commerciale; perché in alcuni rari casi, non è sinonimo di poca qualità.
E l'ultima fatica di Justin Timberlake - tornato alla ribalta dopo ben sette anni di assenza con il semplice pseudonimo di JT - è uno di questi.
Quando uscì il primo singolo, Suit&Tie evitai di ascoltarlo per intero per non incappare nella tipica curiosità che mi coglie e precede ogni nuova release; ma pochi attimi di ascolto mi fecero capire che Justin aveva nuovamente cambiato rotta rispetto al precedente successo FutureSex/LoveSounds. Per questo presi fiato, mi armai di pazienza e decisi di attendere l'album intero, che non ha tardato ad affacciarsi sul mercato globale.
Ed ora che sono entrata in possesso dell'LP più atteso dell'anno, sono pronta a esprimere il mio giudizio.
Che è a dir poco positivo.
L'album si apre con Pusher Love Girl, dichiarazione d'intenti musicali e tematici; una intro composta da un tappeto melodico d'archi che riporta alle origini della musica. Niente più beat discotecari e ballerecci ma solo la musica e il suo cuore pulsante con un Groove molto anni '70 che fa da ponte tra il passato e l'innovazione e una outro che farebbe muovere anche le pietre. Subito dopo, ecco arrivare il singolo apripista - Suit&Tie - che più Vogue Uomo di così non può fare: il video ufficiale con cui è stato rilasciato, abbinamento sapiente di b/n e immagini che richiamano le atmosfere di un locale di spettacoli anni '30/'40, suggerisce l'accostamento di JT a un modernissimo Frank Sinatra. L'abito elegante, la pettinatura, il cantato pulito solo decisamente più efebico, ne fanno un nuovo pioniere di sexyness e glamour. Impossibile non muovere a ritmo almeno le spalle, anche nel tremendo e inutile tentativo di rimanere impassibili a un simile ritmo.
Don't Hold The Wall, è la nuova versione di JT per ciò che intende con "muoversi a tempo di musica": le mossette da ballerino sicuro del proprio corpo non sono scomparse (lo immagino in sala di registrazione che scossa la testolina impomatata di qua e di là), ma il sound è retrò e accuratissimo nelle sfumature etniche/bolliwoodiane che compongono l'intero pezzo. Lo zampino di Timbaland qui è evidentissimo e superlativo. Strawberry Bubblegum è il brano che mi convince meno per il momento, ma è comunque un ottimo brano tirato sapientemente a lucido che inizia con un'intro decisamente vintage - stile 45 giri che viene posizionato sul grammofono - prosegue sdolcinato fino all'inverosimile e si conclude in modo degno nonostante le lyrics da diabete ("If you be my strawberry bubblegum, I'll be you're blueberry lollypop").
In successione arriva una Tunnel Vision cinematografica in molti sensi; per quanto l'argomento sia di nuovo l'amore della sua vita qui JT non esagera troppo con i romanticismi e riesce a creare un piccolo gioiello in beat ispirandosi al mondo cinematografico con un testo che riprende proprio il linguaggio della cinematografia ("I got a tunnel vision for you"). Devo dire che a un primo ascolto è uno dei brani che mi convince di più insieme a quello in apertura.
Spaceship Coupe; anche questo brano non mi convince particolarmente anche se è forse quello che conserva maggiormente un legame con FutureSex/LoveSounds per sonorità ma proprio per questo è il pezzo che si discosta un po' di più dall'intero LP.
Subito dopo, una intro da vero e proprio locale di spettacoli anni '40, dove il soul e il jazz andavano alla grande ci immerge nel mondo di That Girl: Marvin Gaye, sarebbe stato fiero dell'allievo JT, anche senza averlo mai conosciuto! Riff di chitarra blues che ti si attacca addosso e non ti molla più, sezione di fiati pimpante e coro sopra le righe: chiedereste qualcosa di meglio?
A seguire troviamo la seconda traccia più scatenata dell'album, la pioniera Let The Groove Get In; oltre a essere un chiaro invito a ricevere nella migliore delle predisposizioni questa ultima fatica di Timberlake e soci, è anche l'avanguardia di quelle che saranno le future hit radiofoniche. Non so perché ma sono abbastanza sicura che la sentiremo per radio e sarà forte, e si trascinerà dietro tutti gli artisti plasticosi sopracitati che il talento non sanno nemmeno dove abiti.
La nona traccia è la splendida Mirrors, secondo singolo estratto; vagamente ricollegabile per sound  - i beat sono gli stessi - all'antesignana What goes around... comes around, ne è l'esatto opposto per tematiche. Qui Timberlake e Timbaland - sembra uno scioglilingua - si sbizzarriscono nella creazione di beat in medio-tempo, dalla caratteristica ritmica cadenzata e marcata che ormai è diventata la firma di Timbo. L'intro e l'outro, danno un valore aggiunto al brano senza stranamente appesantirlo ma anzi donando quella varietà che altrimenti non ci sarebbe stata solo con la parte centrale. La conclusione della versione standard di questo LP, viene affidata a una lentissima e molto ambient, Blue Ocean Floor; non so perché ma il titolo mi ha sempre suggerito che si sarebbe trattato di un pezzone lento e introspettivo e le mie aspettative non sono state deluse. Di certo qui Justin scioglie il papillion e si rilassa seduto comodamente, cantando un brano dedicato all'amore della sua vita spezzando finalmente il ritmo serrato tenuto finora.

La versione Deluxe comprende altri due brani; Dress On e Body Count. Entrambi pezzi piuttosto ritmati e sostenuti, il secondo addirittura ricorda vagamente una Like I Love You degli esordi. Comunque, trattasi di brani intelligenti che rimarcano un'ultima volta il genere verso cui JT si è spostato, più funky e soul, e fanno da backfire finale per chi come me ha provato gusto passando in rassegna ogni brano presente in questo LP.

Alla fin fine, il voto che ho messo lassù in cima è anche troppo basso ma mi riservo di riformulare il giudizio finale all'uscita della seconda parte di questo ampio lavoro, che sembra quasi voler ripercorrere tutte le sonorità che hanno composto la carriera di Timberlake.
Come sarà questa misteriosa pt.2? All'avanguardia ma con uno sguardo al passato tanto per continuare sullo stesso concept? Oppure, e lo spero, una nuova sfida e con ritmi più lenti, ancora più classici e puramente funky quasi che questo The 20/20 Experience, sia stata una lunghissima ma curatissima intro alla seconda parte dell'opera?

Hope Valentine.